La città a misura di anziani è una rete di relazioni
CITTÀ E PAESI IN CUI VIVIAMO RISPONDONO A UN MODELLO DI SOCIETÀ CHE METTEVA INSIEME CRESCITA ECONOMICA, BABY BOOM, TRASPORTO PRIVATO E WELFARE STATE. TUTTE COSE SCOMPARSE DAI NOSTRI SCENARI. SERVONO NUOVE POLITICHE.
Nel 2035 in Italia ci saranno 5,6 milioni di ultraottantenni. Le città diventeranno sempre più abitate da persone anziane, ma saranno città vivibili per un'ampia fetta della popolazione? Ripensare l'urbanistica, la pianificazione e la mobilità diventa un tema per l'agenda politica sempre più urgente. Ne parliamo con il prof. Antonio De Rossi, professore ordinario di Progettazione architettonica al Politecnico di Torino. L'intervista è apparsa sul nostro mensile "L'Eco EXTRA" di febbraio 2024 dedicato alla Terza e Quarta età. Qui è riportata integralmente.
Le nostre città e i nostri paesi saranno a misura di anziani? Lo sono già?
«Ovviamente non lo sono. Il problema della bomba demografica, denunciato da alcuni studiosi inascoltati da anni, e che in Italia assume caratteri di particolare drammaticità, inizia a essere percepito come un tema collettivo solo da pochissimo tempo. E se ne valuta la portata soprattutto rispetto al sistema produttivo e pensionistico nel combinato disposto con la denatalità, o in relazione alla desertificazione demografica di intere parti del paese. Le nostre città e paesi hanno preso forma specialmente nei decenni del secondo ‘900, secondo un modello che metteva insieme crescita economica, baby boom, diffusione dei sistemi di trasporto privato e welfare state. Tutte cose scomparse dai nostri scenari. Non che manchino sperimentazioni lodevoli da parte dei servizi sociosanitari. Ma certo gli spazi degli insediamenti non sono strutturati per una popolazione anziana e ultra anziana così consistente. Non è ancora tema di progettazione, o meglio, di ri-progettazione delle strutture urbane. Mentre qui si tratta di ripensare l’organizzazione dello spazio e dei relativi servizi – da quello abitativo privato, fino agli ambienti pubblici – in funzione di una parte specifica della popolazione che sarà quasi predominante».
Nel futuro sarà più facile vivere nelle città o nell'hinterland? Sempre pensando ad una popolazione che è invecchiata.
«Tendenzialmente per gli anziani direi negli agglomerati urbani, che non vuol dire necessariamente città. Non bisogna infatti dimenticare il tema del cambiamento climatico. Diversi studi dicono che in un futuro non molto lontano la Pianura Padana rappresenterà un ambiente di vita molto difficile per anziani affetti da patologie per il mix di alte temperature e livelli di umidità per circa quattro mesi all’anno. Già ora il numero di morti durante le ondate di calore non è certo esiguo. Per cui, se dovessi dire, direi piccole-medie cittadine di mezza montagna. Dico piccole-medie cittadine per una questione di soglia minima di servizi e di prossimità delle cose, però al tempo stesso la telemedicina, e un tema che pare ancora futuribile come quello della distribuzione di beni tramite droni, possono cambiare radicalmente questi scenari. Il tema come sempre è quanto si vorrà investire su queste cose, e se ciò sarà accessibile a tutti in maniera diffusa».
Si sta parlando molto della città dei 15 minuti, una teoria urbanistica secondo cui i servizi essenziali si trovano a 15 minuti di distanza a piedi. Ci spiega in cosa consiste? Può essere equiparata alla città policentrica medioevale? E soprattutto può essere una risposta alle esigenze di una popolazione di over 65?
«La città dei 15 minuti mette insieme tante cose: la prossimità di beni e servizi, la riduzione dell’uso di mezzi meccanici per la mobilità, e quindi anche il risvolto ecologico, e tendenzialmente anche una maggiore socialità dei luoghi. Quindi in linea teorica sarebbe perfetta. Il problema è che negli ultimi 30 anni le cose sono andate esattamente all’opposto. Abbiamo sempre più dilatato gli spazi di uso quotidiano, sovente concentrando le funzioni in pochi luoghi fuori dai tessuti urbani per ottenere economie di scala (pensiamo alla grande distribuzione, ma anche ai servizi sanitari), con l’effetto che le “cose” sono sempre più lontane tra loro e meno capillari e diffuse. La realtà dei territori, soprattutto di quello italiano, è quella di spazi costruiti sempre più diffusi e al contempo sempre più semivuoti, e privi del commercio minuto e dei servizi di prossimità. Esattamente il contrario della città dei 15 minuti. In altri Paesi europei è veramente molto diverso. Quindi, bisognerebbe cambiare totalmente rotta, ma significherebbe cambiare la mentalità e gli immaginari dei decisori politici. E neanche la pandemia, pensiamo alla crisi della sanità territoriale, è bastata».
Secondo lei, quali sono gli elementi urbanistici e architettonici imprescindibili per costruire città inclusive e a dimensione di longennials?
«Un tema certamente sottovalutato, a parte alcune limitate sperimentazioni, è quello dell’abitare, che invece ha visto molte sperimentazioni in Nord Europa. La nostra cultura certamente non aiuta. In altri Paesi soluzioni come quelle del cohousing sono sempre più diffuse tra anziani sani o con patologie minori. Significa spazi abitativi privati, con alcuni servizi collettivi gestiti direttamente dalle persone, e con la presenza magari di un infermiere che passa giornalmente per fare iniezioni o controllare alcuni parametri. Una cosa quindi assai diversa dalle case di cura per intenderci. Ma le sperimentazioni in Italia sono poche. Abbiamo fatto un progetto di questo genere come Politecnico a Borgomanero, in provincia di Novara, in una vecchia industria tessile, che prevede appunto un cohousing per anziani e al contempo servizi e attività aperte alla popolazione, con particolare riferimento ai giovani. A Rorà, con la sindaca Claudia Bertinat, stiamo immaginando una piccola struttura dove ospitare d’inverno anziani che vivono isolati nelle borgate, e che normalmente vanno a svernare in pianura, con l’effetto che dopo pochi anni non tornano in paese, insieme a servizi per tutta la comunità e spazi abitativi destinati al neo-popolamento. Le soluzioni ci sono, basta volerle perseguire. Penso ad esempio al tema, introdotto dalla Strategia Nazionale per le Aree interne, della figura dell’Infermiere di comunità, che sarebbe fondamentale per garantire abitabilità ai nostri territori di montagna. Il problema, come sovente avviene in questo paese, è che non si vogliono vedere i problemi in faccia. Un tema sempre più diffuso è ad esempio quello di anziani che abitano in case o appartamenti oramai troppo grandi per loro. Ma fino a quando non si offrono alternative, la sequenza resterà la solita: in casa propria fino a quando si è autosufficienti, badante, casa di cura e ospizio. La mancanza di soluzioni e pratiche alternative ha costi sociali che saranno sempre più enormi, oltre al fatto che si vede la terza e la quarta età come qualcosa di residuale, privo di valore, mentre dovrebbe essere un capitale sociale importante per le nostre comunità».
Costruire una città per i vecchi è in antitesi con la città per le famiglie e per i giovani o è possibile pensare a città che non solo siano a misura di anziano ma che, in qualche modo, aiutino a diventare anziani perché promotrici del benessere dei cittadini?
«Si parla molto di intergenerazionalità tra gli studiosi di scienze sociali, gli operatori sociosanitari e anche gli architetti. Ma di nuovo, il tema è quello di sperimentazioni che poi possano davvero trasformarsi in politiche diffuse e quotidiane. Ho un piccolo esempio che risponde perfettamente a quello che lei dice: un progetto a Venezia dove due enti che gestiscono l’edilizia sociale pubblica hanno messo insieme, visto che erano adiacenti, un grosso spazio aperto abbandonato e alcune case sul perimetro. Lo spazio abbandonato è diventato un grande orto gestito direttamente dagli anziani, che raccolgono frutti e ortaggi organizzando pranzi collettivi. L’orto è visitato quotidianamente dagli studenti delle scuole. Nelle case si sono realizzati spazi abitativi per gli anziani e dei locali collettivi. Ma non solo: alcuni alloggi vengono concessi a giovani e studenti, che pagano la loro locazione offrendo tempo agli anziani, facendo piccoli servizi o semplicemente stando con loro. Questa è l’intergenerazionalità, banalmente: basta poco, e ha costi relativamente limitati. Ma con grandi risultati in termini di welfare per tutti».
Molti studiosi indicano tra le probabili importanti fratture sociali del futuro il conflitto intergenerazionale, sostanzialmente dovuto ad un profondo gap di accesso alle risorse. Crede che questo conflitto possa avere come teatro anche gli spazi urbani, intendo gli spazi pubblici?
«Questo è un nodo decisivo, che travalica il tema di cui stiamo parlando per trasformarsi in un nodo importante della società italiana. È evidente che la popolazione italiana più anziana gode di rendite e di redditi ben maggiori di quella più giovane, in ragione di stagioni storiche radicalmente differenti. E se oggi non ci fossero diciamo i nonni, molte famiglie di figli e nipoti non starebbero in piedi. Dopodiché il conflitto che vedo profilarsi in prospettiva non è tanto intergenerazionale, ma tra chi gode di rendite, che possono essere di varia natura, e chi sempre di più non ha nulla e nessuna prospettiva. La rendita – ce l’ha detto in questi giorni anche l’OCSE – blocca le economie e il dinamismo sociale. In una vera società liberale e capitalista, come dovrebbe essere la nostra, andrebbe limitata e ricondotta a un tema di sviluppo, non dico neanche collettivo. In altre fasi storiche il sistema capitalistico lo ha fatto proprio per non perire».
Ancora due domande sulle case. Secondo lei il mercato immobiliare si è già accorto che qualcosa sta cambiando? Il senior housing, ovvero sistema di appartamenti indipendenti organizzati intorno a una serie di servizi comuni aggiuntivi, pensati per i bisogni di persone over 65, in buona salute, sarà una strada percorribile? Per tutti o solamente per i ricchi?
«Vedo alcuni territori attenti a queste tematiche anche dal punto di vista pubblico, e penso ad esempio all’Emilia. Gli operatori privati certamente stanno lavorando molto in questa direzione, anche con visioni talvolta innovative. È chiaro che il bacino potenziale è enorme. Sono già diverse le iniziative che offrono ad esempio uno scambio tra la propria abitazione privata in proprietà e strutture abitative con servizi sanitari e collettivi. Sarebbe bello fosse un tema di progettualità pubblica. Invece il rischio è che si concretizzi solo per i ceti più abbienti. Sempre per fare un esempio concreto, stiamo lavorando in un piccolo Comune delle montagne del Molise, Castel del Giudice, dove l’Amministrazione ha costruito una RSA e una RA col contributo della collettività, e ora con fondi PNRR Bando Borghi sta realizzando dei Senior Housing che stiamo progettando. È evidente che questa comunità ha un progetto preciso dove gli anziani possono costituire un’opportunità. Sarebbe un tema importante da immaginare anche per le nostre valli, che hanno da loro una storia, penso ai Valdesi e a strutture come il Carlo Alberto».
Infine una domanda personale. Secondo lei qual è il miglior posto (città o paese) dove invecchiare?
«Credo in qualche modo di aver già risposto alla domanda. Penso che il tema del cambiamento climatico diventerà sempre più forte. E quindi in un contesto ambientale che offra condizioni praticabili, senza dover vivere per mesi in una stanza col condizionatore. Possibilmente in una comunità capace di offrire servizi e socialità nello spazio non dei 15 minuti, ma dei 5. I paesi e le cittadine che sapranno orientarsi su questo certamente avranno molte opportunità».
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Paola Molino