«Ad Haiti sembrava un bombardamento!»
VIGONE - «Sembrava un bombardamento, solo le baracche non sono andate giù». Il primo impatto con lo scenario di una città devastata dal terremoto è stato forte, glielo si legge negli occhi. Occhi che diventano lucidi mentre ripensa alle centinaia di persone maciullate, che si è ritrovato di fronte quando ha varcato il muro di cinta dell’ospedale dei padri Camilliani ad Haiti, che sorge su un’area di circa 67.000 metri quadrati.
Ugo Morra, 74enne vigonese, ex-proprietario di un’officina, da 11 anni si reca costantemente nello Stato che si spartisce l’isola caraibica Hispaniola con la Repubblica dominicana. Ci va per fare del volontariato.
Quell’ospedale a Port au Prince l’ha visto nascere. Ha contribuito a costruirlo con le sue mani, ma tornarci stavolta è stata un’altra cosa. Il 12 gennaio scorso una scossa di terremoto di magnitudo 7 ha messo in ginocchio la capitale haitiana, ha fatto centinaia di migliaia di morti. E tanti corpi sono ancora sotto le macerie, ma non si possono conteggiare, perché non "esistono": non hanno documenti.
Anche l’ospedale pediatrico dei padri Camilliani ha patito la violenza del sisma. La struttura, nel complesso, ha retto, malgrado le numerose crepe nei muri; ma gli scaffali della farmacia si sono frantumati rovesciando le medicine a terra, il serbatoio dell’acqua è da cambiare ed è crollato parte del muro di cinta.
Le conseguenze, però, non si fermano qui. E Morra le ha viste di persona, perché è partito il 22 gennaio ed è tornato a casa due mesi dopo: «C’era gente dappertutto, in chiesa, nel cortile, sotto i portici e negli androni».
L’ospedale, nato per curare i bambini, è diventato un centro di raccolta di feriti e disperati: «Le infermerie e gli ospedali del luogo sono crollati tutti - racconta il volontario vigonese -. Per questo i malati venivano portati lì dai parenti, che si fermavano con loro perché avevano la garanzia di un piatto di riso e di un pezzo di carne».
Non c’erano, però, abbastanza letti per accoglierli: «I primi giorni che ero là tiravamo nylon e montavamo tende per ospitarli all’aperto - abbozza -. Ora molti sono andati via e quasi tutti hanno un letto o una brandina militare su cui riposare».
Per far fronte alla continua richiesta di soccorsi, la struttura ha dovuto far funzionare al meglio la sala operatoria, in cui si interveniva senza interruzioni per circa dodici ore al giorno. «Un ortopedico milanese ha fatto 56 interventi in sei giorni - riferisce Morra -. Per migliorare l’efficienza abbiamo allestito un locale apposito per l’ingessatura, così non si sporcava nella sala operatoria e i chirurghi potevano lavorare ininterrottamente».
A creare difficoltà nelle situazioni di emergenza, però, sono quelle che si considerano normalmente "piccole cose": non c’erano abbastanza lenzuoli per tutti, malgrado le quattro lavatrici industriali girassero a pieno ritmo, perciò è stata comprata della stoffa per farne degli altri, confezionati dal sarto dell’ospedale.
«Lì intorno tutti i negozi erano chiusi e non si poteva reperire facilmente ciò di cui c’era bisogno». In queste condizioni bisognava lavorare con l’ingegno, partendo da ciò che si aveva a disposizione: «Per esempio ho fatto pesi per mettere in trazione le fratture tagliando a pezzi del ferro» accenna Morra.
Ma non mancavano problemi come smaltire i rifiuti oppure risparmiare energia per non consumare le scorte di gasolio e gas: «All’inizio ce ne hanno dati solo 200 litri - si rammarica -. Poi abbiamo insistito per averne di più, anche se ce lo davano poco per volta». A ciò si aggiungevano le difficoltà di far passare gli aiuti e le merci alla dogana. Infine, mancavano pure i soldi: le materie prime dovevano essere pagate, così come il personale locale che era stato potenziato, ma i soccorsi erano gratuiti e le donazioni non erano ancora arrivate.
Dal sisma sono passati un’ottantina di giorni e, secondo Morra, c’è il rischio che, spenti i riflettori dei media, ci si dimentichi di tutto ciò che è successo. «Se finisse così, sarebbe dura per chi è là».
Ora che l’emergenza sta finendo, infatti, c’è molto da fare ancora. «Si calcola che ci siano state 45.000 amputazioni di braccia o gambe - è commosso Morra -. I padri Camilliani stanno studiando di costruire un laboratorio per fare protesi su misura da applicare ai mutilati».
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Paola Molino