Franco Monnet racconta il giro del mondo in bici
Franco Monnet ha iniziato il suo viaggio in bicicletta attorno al mondo il 7 luglio 2000 e lo ha concluso il 14 maggio 2002.
Famiglia d'origine della Val Pellice, ha vissuto fino a 18 anni a Pinerolo, ma al "nostro" globetrotter la cittadina ha iniziato presto a star stretta. Eccolo quindi a vivere e lavorare in diverse parti del mondo.
Da quattro anni è fermo a S. Sepolcro, nella splendida Toscana, dove la sua "signora", come ama chiamare la sua compagna, possiede un'antica dimora. A 48 anni, benché il vento dell'inquietudine non scuota più violentemente il suo animo, talvolta si alza una sottile brezza che risveglia in lui il desiderio di riprendere il cammino. «Da tempo sto pensando al prossimo viaggio, questa volta mi piacerebbe andar per mare, o semplicemente camminare. È un progetto che deve ancora maturare». Intanto c'è da finire di restaurare l'antico pavimento in legno nel casale della sua "signora".
La passione di Monnet per i viaggi inizia più di 20 anni fa e dopo i lunghi soggiorni all’estero arrivano gli itinerari, sempre più avventurosi, come la discesa del Rio delle Amazzoni in canoa. Lavorava, certo, «ma da quando ho scoperto il desiderio di viaggiare ho smesso di fare il dipendente; mi sono occupato di restauri e ristrutturazioni edilizie. Portavo a termine un lavoro, incassavo i soldi e poi via», in una continuità di pensiero tra quando si è a casa e quando ci si sente a casa nel mondo.
Monnet un giorno decide di farsi un’idea del mondo nel suo insieme: «La bicicletta mi è sembrata il mezzo migliore». Trovati gli sponsor e organizzato l’itinerario, parte con la sua due ruote e 60 chili di bagaglio. «Ho portato solo l'indispensabile, perché in ogni Paese trovi quello che serve». Ma essendo il suo un viaggio non solo chilometrico, ma anche attraverso le stagioni, «dovevo essere organizzato sia per l’estate torrida sia per l’inverno freddo e umido».
Venezia e poi le gambe hanno cominciato a spingere verso Est, nell’estate balcanica, talvolta torrida, altre volte piovigginosa: in Croazia, sotto il cielo d’Ungheria, popolato da miriadi di cicogne. La temperatura era buona, permetteva di pedalare per centinaia di chilometri. Verso gli sterminati campi di Romania, tra mucche e oche, dove la pace bucolica ricorda la felicità; più a sud sulla stessa strada delle carovane degli zingari con i loro carri in legno; fino a Sofia, dove il caldo in quei giorni toglie il fiato. Si prosegue: ecco la Turchia, con la coda di Tir diretti al Bosforo che rendono pericolosa la discesa su Istanbul, bella, magicamente contaminata.
Nei suoi diari Franco Monnet scrive: «Finalmente, con 2.150 chilometri nelle gambe mi accascio alla pensione Konya, nel cuore di Costantinopoli. Provo una grande emozione: di fronte a me c’è l’Asia, la prima parte del mio viaggio, quella "europea", è finita. Adesso sono davvero lontano da casa».
Il nostro ciclista viaggiatore non patisce la solitudine, «si conosce sempre tanta gente», neanche la lontananza dagli affetti «perché quelli te li porti sempre vicino al cuore». Piuttosto, «la mancanza di qualcuno con cui condividere ciò che vedi. Una sorta di testimone che ti aiuti a non dimenticare nessuna delle tante meraviglie, con cui commentare e riflettere».
Si prosegue, si entra in Iran, «il Paese che mi ha sorpreso di più per la bellezza del paesaggio e la ricchezza di cultura. La gente ha una profondità impensabile in altre parti del mondo». Via, in Pakistan, India, Nepal, dove Monnet vive uno dei momenti più difficili: «Ho avuto un inizio di cancrena a causa di una ferita infetta», ma quando pensa di non farcela più e dover tornare a casa, la ferita comincia a guarire e le forze a riempirgli il corpo. Parlare con la gente del posto non è un problema: «Mastico quattro-cinque lingue, l’inglese è abbastanza diffuso e poi c’è il linguaggio universale, quello dei gesti». Torna in India e qui prende un aereo - uno dei sette voli che utilizza in tutto il viaggio - perché la Birmania non è una terra che si può percorrere liberamente. Arriva in Thailandia, che ridiscende tutta, va in Malesia e qui con una barca raggiunge l’Indonesia, e poi Bali. Un altro volo aereo per attraversare l’Oceano e arrivare a Darwin, Nord Australia. È l’aprile 2001, la wet season, l’estate, si consuma tra cicloni e fulmini che scuotono città e oceano.
Franco Monnet dorme dove capita: amache, ovili prestati da pastori amici, capanne di fango e sterco; «ero comunque cauto, ho capito che l’essere umano è peggio di quello che si crede, e quando potevo dormivo in pensioni o punti sosta: quando si pedala così tanto il corpo necessita di manutenzione e pulizia».
Sale su un aereo e raggiunge la Nuova Zelanda. Altro aereo per il Messico, gli Stati Uniti rimangono fuori dal giro, «non mi interessavano». Imbocca la Pan America Highway, la strada più lunga del mondo, una linea che dall’Alaska arriva a bersaglio nella Terra del Fuoco, dove giunge lo stesso Monnet per poi risalire nuovamente fino a Buenos Aires. «Sono arrivato in Argentina nel momento più tragico della sua crisi finanziaria, c’erano manifestazioni e scioperi, non riuscivo a trovare un’agenzia aperta che mi facesse un biglietto aereo». A fatica riesce a partire per la Tunisia, poi di nuovo Europa: Gibilterra, Portogallo, Spagna, Francia e casa.
Due anni di pedalate intorno al globo terrestre, 40 milioni di lire spesi - è partito con la lira, è tornato che c’era l’euro - migliaia di incontri, alcuni importanti, altri durati il tempo di un boccale di birra. Sudore e meraviglia, e la riflessione finale che «la più grande globalizzazione è l’essere umano: ci stiamo scoprendo uguali ovunque». Il paradiso non è su questa terra.
I diari di viaggio di Franco Monnet sono diventati uno spettacolo teatrale, con l’adattamento dello stesso Monnet e di Enzo Tuminello. Accolto con grande favore a Firenze, venerdì 23 alle 21 lo spettacolo verrà presentato al Teatro del Forte di Torre Pellice.
Già pubblicato:
• "Da Torino a Kioto in 128 giorni - Il lungo viaggio di Beppe Percivati con la sua vecchia Vespa 125".
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Paola Molino