Chiunque vinca bipolarismo azzoppato
È iniziato il conto alla rovescia per le elezioni di marzo. I due schieramenti che si fronteggeranno hanno ormai scelto i candidati alla presidenza delle Regioni. Ed i sondaggi hanno definito la consistenza della coalizione guidata da Berlusconi e di quella che ha il suo perno nel Partito democratico, per quanto è possibile a tre mesi di distanza dal voto. La coalizione che sommerà i voti del Popolo della libertà e della Lega sembra in grado di conquistare la maggioranza delle 13 Regioni in palio; eppure la partita resta aperta, poiché più di un terzo degli elettori non ha ancora deciso per chi votare e resta alta la percentuale degli elettori che sono tentati dall'astensione. Bisogna inoltre riflettere su un dato che riguarda il sistema democratico ed il suo declino: entrambe le coalizioni sono condizionate da una componente "estrema": la Lega a destra, e Di Pietro a sinistra, si propongono un obiettivo diverso da quello che caratterizza la linea dei partiti che pretendono di essere il perno degli opposti schieramenti. Ed entrambi questi partiti sono elettoralmente decisivi.
Per vincere, Berlusconi ha ceduto le candidature alla presidenza regionale del Veneto e del Piemonte alla Lega; e Bossi cavalcando l’onda "federalista" si propone di conquistare la "pole position" anche in Lombardia, per diventare il padrone della Padania. A cosa si ridurrà, a quel punto, la leadership di Berlusconi, solo ad un'ambizione personale? Sull’altro versante, per resistere alla spallata del populismo, Bersani ha confermato un'alleanza che rischia di caratterizzare il centrosinistra come uno schieramento "giustizialista" più che come l’alternativa riformista ad un progetto autoritario. E se questa impressione sarà confermata, la radicalizzazione dello scontro giocherà a favore della destra e non potrà che indebolire la prospettiva di un recupero dei voti moderati, affidata all'alleanza con Casini. Lo stesso congresso del Pd si era detto convinto che solo per questa via si può battere il populismo della destra, ma se questa via è percorsa con incertezza, anche per responsabilità dei centristi, il risultato non potrà che essere modesto.
Chiunque vinca, il bipolarismo rischia di uscire azzoppato dalla prova elettorale di marzo. In realtà sono gli stessi partiti che da quasi vent’anni indicano il bipolarismo come il punto di forza della loro identità, a riconoscere ad altre forze politiche il compito di scrivere l’agenda sociale ed economica del Paese. In questa situazione il potere di ricatto della Lega gioca a favore di Fini e delle "distinzioni" messe in evidenza dal presidente della Camera, il quale non perde occasione per difendere il ruolo del Parlamento nei confronti del presidenzialismo di Berlusconi.
Tuttavia sono più evidenti le contraddizioni del Pd. Alle difficoltà iniziali che Bersani ha incontrato per mettere insieme i moderati (Casini e Rutelli) con Di Pietro e con l’arcipelago delle sinistre radicali, si sono aggiunte le difficoltà esplose in Puglia e nel Lazio. Nulla da dire sulla personalità di Nichi Vendola e di Emma Bonino, molto da dire sul disorientamento che hanno aperto sul fronte del voto cattolico. E tuttavia non è questa la questione più importante: in diverso modo Vendola e Bonino hanno messo in evidenza la fragilità organizzativa del Pd e la debolezza del suo rapporto con il territorio, ma soprattutto l’ambiguità del progetto politico di un partito nato per ripensare la storia democratica di questo paese e per mettere insieme la sinistra storica ed i popolari come espressione dei cattolici democratici. Come si può lasciare in ombra il fatto che sulle riforme istituzionali, elettorali, sociali ed economiche (e l’elenco potrebbe continuare) Vendola e la Bonino rappresentano due diversi ed opposti progetti di società, entrambi lontani dal progetto democratico, e che il Pd sinora non ha detto nulla per dimostrare che conserva il timone della nave? Lo saprà fare nel corso della burrascosa navigazione elettorale? Anche da questo dipenderà l’esito del voto.
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Paola Molino