Riforma della giustizia e separazione delle carriere: le ragioni del "sì" e del "no" illustrate da due giuristi di rango

27/03/2025 - 08:09

Sarà il posto, il tempio valdese (di Pinerolo), sarà il pubblico, particolarmente abituato al dibattito e alla riflessione pacata, saranno i relatori, giuristi di rango come il giudice Gianni Reynaud e l'avvocato Andrea Cianci per i quali il confronto è sacro, ma l'incontro di giovedì 20 marzo è stato di quelli che vorremmo sempre sentire. Ricco di spunti che illuminano la comprensione. Uno di quelli (purtroppo non molti) che ti fanno venire voglia di capire e non di cambiare canale.

Si parlava di di un tema che tiene banco da tempo: la Riforma della giustizia, vera bandiera del Governo Meloni. In particolare di separazione delle carriere dei magistrati. Un tema di quelli altamente "divisivi", anche perché, purtroppo, altamente politicizzati, con due opposte fazioni che si schierano e polarizzano, incapaci di ascoltare le ragioni dell'altro. In questo caso non è andata così: i due relatori ("moderati" dall'avv. Andrea Serafino, che qui era quasi padrone di casa, visto che a promuovere la serata è stata l'associazione culturale intitolata al padre Ettore) hanno chiarito le motivazioni che li spingono a dire "no" (Reynaud) e "sì" (Cianci) alla separazione delle carriere. Le loro posizioni le avevamo ampiamente anticipate su l'Eco (e le trovate qui di seguito) e giovedì 20 sono state approfondite e dibattute. Sostenute con forza, ma senza faziosità, cercando equilibrio ed equidistanza. Così Reynaud, pur fermo sostenitore della necessità di tenere uniti giudici e pm sotto lo stesso "ombrello", ha aspramente criticato il "correntismo" che rischia di soffocare le voci plurali della magistratura, e sull'altro fronte Cianci ha voluto ribadire la «serietà e complessità del tema», di cui si dibatte dal '41 e che «va affrontato in medo tecnico e non politico». Di certo, tutti noi cittadini dobbiamo imparare a conoscerlo. Perché, molto probabilmente, su questo saremo chiamati a pronunciarci attraverso un referendum costituzionale che, come ha ricordato il giudice Reynaud, ci «trasformerà, tutti, in legislatori». 

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Il giudice Gianni Reynaud: il mio "no"

Quella che viene impropriamente definita “riforma costituzionale della Giustizia” non affronta i reali problemi che riguardano la quotidiana amministrazione della giustizia, ma costituisce una “riforma della Magistratura”, in particolare quella penale. Incide sulle prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza, anche dagli altri poteri dello Stato, che la Costituzione ha voluto riservare all’unico ordine della magistratura perché potesse essere garante dei diritti e della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Per la prima volta dal 1948, con un testo blindato fortemente divisivo e privo di ampia convergenza, si incide su uno dei tre poteri dello Stato. Questa è a mio parere una riforma inutile, dannosa nell’immediato e pericolosa per il futuro. La separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice non incide in alcun modo sull’imparzialità di quest’ultimo e sin da subito consegnerà al primo l’esercizio di poteri in grado di incidere fortemente sui diritti dei soggetti coinvolti nel processo. Poteri che oggi si giustificano perché il pm, che ha formazione comune a quella del giudice e si nutre della medesima “cultura della giurisdizione”, incarna l’autorità giudiziaria nella fase iniziale del procedimento penale. La rilevanza di quei poteri, una volta attribuiti ad una corporazione autonoma ormai estranea all’ordine dei giudici, porterà ad assoggettare il pubblico ministero al controllo del potere politico con fortissimo rischio di impropri condizionamenti. L’istituzione dell’Alta Corte disciplinare (con potere disciplinare su giudici e pubblici ministeri) riduce poi le garanzie di indipendenza e tutela e rischia di trasformare il magistrato in un burocrate intimidito. 

 

L'Avv. Andrea Cianci: il mio "sì"

Il giudice e il pubblico ministero, pur rivestendo entrambi la qualifica di magistrato, ricoprono notoriamente ruoli in radice diversi. A fronte di tale ontologica eterogeneità viene da chiedersi non tanto perché le rispettive carriere debbano essere oggi separate, ma per quale singolare ragione si trovino tuttora confuse. La riforma si preoccupa di portare a (tardivo) compimento le previsioni della Carta costituzionale sul versante del “giusto processo”. L’art. 111 nel sancire che la giurisdizione si attua nel contraddittorio, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale, individua l’equidistanza dalle parti processuali rispetto al giudicante quale precondizione di un processo giusto. Con la riforma si vuole mitigare il rischio che i profili di terzietà e indipendenza del giudice possano essere pregiudicati dall’unicità di reclutamento e di carriera, da ragioni di “colleganza” e dall’identità dell’organo di governo autonomo (il CSM), in cui - spesso sotto l’influenza delle correnti - si realizza la commistione delle decisioni su trasferimenti, incarichi direttivi, valutazioni di professionalità. Chi avversa la riforma teme che possa minare l’indipendenza del pubblico ministero, consegnandolo al potere esecutivo. Si tratta, però di un processo alle intenzioni, per di più irrealizzabili perché inibite dalla stessa proposta di riforma, in cui viene ribadito che la magistratura, giudicante e requirente, è un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. La fiducia dei cittadini verso il sistema giustizia, nel suo complesso, è grandemente decaduta e, nella percezione diffusa, anche l’immagine della magistratura si è progressivamente indebolita. Per migliorare, bisogna cambiare.

 

(In foto l'incontro del 20 marzo ala Tempio valdese, da sinistra, il giudice Gianni Reynaud, l'avv. Andrea Serafino e l'avv. Andrea Cianci)