Ucraina: verso la guerra e ritorno - Giorno 4 (seconda parte)

07/03/2022 - 12:43

È finalmente il momento di consegnare i medicinali che ho portato con me. Dopo tre giorni di silenzio Mikhailo mi ha dato il numero di telefono della persona che dovrò contattare. Si tratta di una donna ucraina con un’impresa edile a Boguchwała, a 180 chilometri da Cracovia. Gli aiuti che abbiamo raccolto seguono la più informale delle vie possibili. Sono state donate nel giro di appena una giornata grazie a un messaggio spedito a qualche amico e al passaparola che ne è scaturito. Il mio punto di riferimento è un amico carissimo nel quale ho totale fiducia, ma nessuno di coloro che hanno fatto una donazione per questo viaggio lo ha mai visto, la maggior parte di loro ha saputo della sua esistenza per la prima volta in questo diario. Lui a sua volta mi rimanda a una certa Iryna di cui non avevo mai sentito parlare. Sono tante ramificazioni con una sola radice: la fiducia.

Anche suor Anna, la suora salesiana di Przemysl, vacilla. La vedo dubitare di me e delle vie di questi percorsi solidali. Mentre facciamo colazione nel refettorio del convento le dò il numero di Mykhailo e lei lo chiama. E durante la conversazione scoprono di essersi conosciuti dieci anni fa, a Cracovia. Continuano a parlare, la vedo infervorarsi mentre il suo sguardo sembra scrutare una profondità lontana. «Fra qualche giorno la mia macchina sarà riparata - dice quando ha finito -. Poi potrei iniziare io stessa a portare medicinali oltre la frontiera, in Ucraina, come questa Iryna». Prima di finire il discorso il suo sguardo è di nuovo assorto in qualche progetto; una delle sorelle, che evidentemente la conosce da tempo, la osserva dall’altra parte della stanza, sorride e scuote la testa. 

Il luogo di incontro con uno dei dipendenti di Iryna è in mezzo alla campagna di Boguchwała, su una strada costeggiata da decine di serre per la coltivazione di ortaggi. Il capannone si trova alla fine della strada, dove l’asfalto finisce in un prato. L’unica luce nel raggio di cento metri è una finestra al primo piano, oltre la quale si riconosce un uomo. Quando ci vede si alza in piedi e fa una telefonata mentre il cancello d’ingresso inizia ad aprirsi. Mentre si richiude dietro di noi, si apre il portone del capannone ed entriamo in un ambiente buio molto spazioso, chiaramente il magazzino di un’impresa edile: ci sono bancali carichi di mattoni, sacchi di cemento e altri materiali per l’edilizia. A sinistra del portone invece ce ne sono alcuni pieni di cibo a lunga conservazione. In un angolo del capannone c’è un furgone semi carico con il portellone aperto. «Va bene - dice Andryo - prima i medicinali, se poi c’è ancora posto carichiamo anche il cibo e infine le coperte». Questione di pochi minuti. 

Andriy partirà domani mattina con quel furgone per consegnare gli aiuti oltre il confine. Lo fa più o meno ogni due giorni, e al ritorno carica il suo furgone con le persone che vogliono arrivare nei centri di accoglienza di Przemysl o Rzeszow. Ieri mentre ritornava, sul lato polacco della frontiera, si è imbattuto nei bus provenienti da Kherson (a sud, tra Odessa e la Crimea). La città ha una storica presenza di stranieri, anche persone di colore, che vivono lì da generazioni. «Alcuni autisti si rifiutavano di farli salire. Non capivano che sono "dei nostri"». È un'espressione molto frequente che significa in sostanza "ucraini". In Ucraina come in altri paesi slavi il razzismo è assai più radicato che nell'Europa centrale e occidentale, anche per una minor presenza storica di africani, arabi, asiatici. Dieci giorni di guerra non hanno cancellato questo aspetto. Prima di ripartire Andriy ha interrogato tutti gli autisti di bus per trovare quelli disposti a trasportare gli stranieri e, dice, non è stato difficile. 

L'ultima tappa della giornata è una città di nome Opole, dove ci stanno aspettando Valentyna con i due figli di 12 e 5 anni. Sono partiti sabato, terzo giorno di guerra, da Stryi, ai piedi dei Carpazi, e da tre giorni si trovano in uno studentato che ospita i profughi. Valj ha 38 anni. Non sa che con me c'è Ivanka: si conoscono da quando lei ha 10 anni perché era compagna di classe di suo figlio. Quando la vede impiega qualche secondo a mettere a fuoco la situazione. Poi le lacrime iniziano a uscire prima che riesca a dire «ciao». «Jura è rimasto là. Ha preso un fucile automatico ed è andato a combattere». Poi il suo volto scompare in un abbraccio.

 

 

Mattia Bianco è un giornalista de L'Eco del Chisone, scrive di Economia, Spettacoli e Cronaca. Appassionato di montagna, è accompagnatore naturalistico, collabora con riviste specializzate ed è autore di due guide di trekking. Ha 34 anni, vive in un piccolo paese della Valle Po ed è sposato con Halyna, originaria di Chervonograd vicino a Leopoli. Si è messo in viaggio mercoledì mattina per portare in Italia un'amica di famiglia con i due bambini. L'idea di riempire l'auto di medicinali da far arrivare ai soldati e ai civili che stanno resistendo nelle città sotto attacco, e coperte e abiti caldi per i bambini e le donne che affollano i centri profughi polacchi, si è trasformata in un'ondata di solidarietà.